Scienza e MeteoBufale

Riportiamo un articolo apparso sul Giornale della Protezione Civile, a cura di Patrizia Calzolari, in cui Filippo Thiery, meteorologo della Protezione Civile,  spiega in modo chiaro e professionale il problema della spettacolarizzazione della meteorologia a cui si sta assistendo da quache anno anche in Italia. Buona lettura!

SCIENZA VS METEOBUFALE, THIERY: “RIDIAMO DIGNITÀ ALLA METEOROLOGIA”
“Scienza vs meteobufale” argomento che verrà trattato da Filippo Thiery, meteorologo professionista e volto noto della trasmissione Geo di Rai3, al 5° meeting AssoDima che si terrà a settembre a Senigallia. “Se sul web qualcuno racconta che Dante ha scritto i Promessi Sposi viene preso per persona non meritevole di alcuna credibilità letteraria, mentre – spiega Thiery – se uno spara analoghe bestialità in ambito meteorologico rischia di essere preso sul serio. E’ una situazione che l’Italia non deve più permettersi”

Caronte, flegeonte, ulisse, circe, cerbero e chissà che dalla mitologia  non si passi direttamente ai sette vizi capitali, ai grandi criminali o agli eroi dei fumetti, (ciclone diabolik , tornado dillinger o anticiclone accidia): è la meteorologia “pret a porter” che da scienza per decenni appannaggio di severi colonnelli che chiosavano su “isobare” e “anticiclone delle azzorre” oggi è diventata passione nazionale trasversale e onnipresente. I cellulari si vendono già corredati di app meteo, infiniti i siti web dedicati, video-metereologi superstar e tifoserie su quale sia la app che “ci prende di più”.
Ma le previsioni meteo in realtà sono cosa seria, effetto di calcoli complessi, algoritmi, studi e osservazioni tutt’altro che semplici: allora come mai oggi ci sentiamo siamo tutti meteo-esperti?
Ce lo spiega Filippo Thiery meteorologo professionista, protagonista della rubrica meteorologica di Geo, programma di divulgazione scientifica e ambientale di cheapcialisoriginal.com/ Rai3.

Dott Thiery, perché la meteorologia è diventata così popolare ?
In primo luogo perché è la branca della Scienza, ma direi della conoscenza in generale, che più di qualsiasi altra è in grado di fornire informazioni di largo e quotidiano utilizzo da parte di tutti i cittadini per la pianificazione delle proprie giornate e delle proprie attività, professionali o di tempo libero che siano. Difficile trovare, fra le pagine dei giornali e le varie rubriche di news, un altro ambito capace di risultare quotidianamente utile, e quindi fonte di attenzione ed interesse, per una fetta così grande, trasversale ed eterogena di persone, come appunto l’informazione su “che tempo farà”. In secondo luogo, probabilmente, perché unisce l’eterno fascino della previsione del futuro con il carisma dell’autorevolezza della Scienza, e perché offre la capacità di annunciare e spiegare i fenomeni che popolano la volta celeste e che l’uomo osserva e contempla dalla notte dei tempi; al di là dell’utilità operativa quotidiana, quindi, è una disciplina che fornisce risposte ad esigenze di conoscenza a dir poco ancestrali della nostra specie”.

Qual è il rischio di questa popolarità?
Al pari di qualsiasi ambito molto popolare, capace quindi di riscuotere facilmente ascolto e attenzione, è fisiologico che la meteorologia si presti ad essere utilizzata come mezzo per ottenere audience, ovvero che sia utilizzata come vetrina per veicolare pubblicità, o comunque per catturare lettori, utenti e click a valanga. E in questo non ci sarebbe ancora nulla di male, se la divulgazione meteorologica non diventasse conseguentemente terra di conquista anche da parte di realtà commerciali che non detengono le competenze professionali e/o gli scrupoli deontologici necessari, e se non si assistesse contestualmente alla diffusa pratica di gonfiare o spettacolarizzare gli eventi meteorologici per alzare al massimo l’asticella dell’audience (il sensazionalismo, purtroppo, fa sempre notizia, la perturbazione in arrivo è sempre “devastante” e a volte si trasforma in “uragano”, le piogge intense o le temperature elevate diventano a tutti i costi “record”, e l’aggettivo “eccezionale” ha sempre il suo fascino, facendo parte del repertorio nazional-popolare fin da quando Diego Abatantuono lo pronunciava con quattro zeta e la u al posto della o). Ne risentono, inevitabilmente, la qualità e la serietà dell’informazione, svilendo spesso la meteorologia da disciplina scientifica a fenomeno da baraccone circense. Ma anche laddove non vi siano finalità commerciali, il rischio della popolarità della meteorologia è che a cimentarsi con essa, in particolare con quella votata alle previsioni, si possa trovare davvero chiunque, anche semplicemente per mero diletto o per puro gusto di visibilità (siamo ormai un popolo di collezionisti di “like”) sul web e sui social network. Nell’era di questi ultimi e dell’informazione fai-da-te, una disciplina così popolare, come la meteorologia, diventa un settore particolarmente delicato, che riesce a superare persino il calcio, come terreno di chiacchiere e speculazioni incontrollate: se è noto che siamo un popolo di sessanta milioni di allenatori della nazionale, è ormai conclamato che annoveriamo altrettanti opinionisti meteorologi, di tutte le estrazioni e tutte le età, dai quindici ai novantanove anni, come recitano le scatole di alcuni giochi da tavolo. E non sempre, specie nella giungla del mondo virtuale, è automatico per gli utenti distinguere l’informazione professionale da quella amatoriale, né modulare l’attendibilità da conferire al variegato ed eterogeneo arcipelago della seconda”.

Chi ha la competenza scientifica per fare e diffondere le previsioni meteo?
“Dal punto di vista dei titoli di studio, il profilo più adatto è quello di un laureato in Fisica (ma sarebbe a dir poco auspicabile che nel nostro Paese si investisse per reintrodurre la laurea, ancor più specialistica, in Fisica dell’Atmosfera e Meteorologia, che è stata tristemente vittima dei tagli universitari fino a scomparire). Alla laurea si deve unire un periodo di affiancamento ed attività operativa nella sala previsioni di un ente o servizio meteorologico, esattamente come un medico chirurgo non diventa effettivamente tale finché non si misura concretamente con analisi, diagnosi e prognosi e – a maggior ragione – con gli interventi in sala operatoria. Al di là delle competenze teoriche, infatti, c’è da acquisire confidenza pratica con le metodologie previsionali, prendere “il polso” alle prestazioni della modellistica numerica, accumulare un certo bagaglio di esperienza e di casistica sulle varie situazioni atmosferiche e su come vengono schematizzate, più o meno realisticamente, dagli algoritmi dei modelli a seconda del periodo dell’anno e della zona geografica, e non ultimo abituarsi a tradurre il tutto in prodotti efficaci dal punto di vista comunicativo nei confronti dell’utenza, distinguendo peraltro quella generica da quella di settore, e a relazionarsi con le insidiose dinamiche mediatiche”.

Da tempo si discute del problema della mancanza di certificazione e regolamentazione della professione del meteorologo e dell’anarchia normativa del settore: i meteorologi cosa auspicano a riguardo?
I meteorologi chiedono da tempo di sopperire a questo vuoto normativo, reclamando in particolare l’introduzione di precisi requisiti e criteri di abilitazione all’esercizio della propria professione e alla certificazione della medesima, per adeguarla agli standard di tanti altri mestieri specialistici. Questo a tutela innanzitutto dell’utenza, che ha il diritto di sapere – con chiarezza e trasparenza – chi ha effettivamente titolo per rilasciare determinate informazioni. Credo che chiunque, nel momento in cui deve affidare se stesso o i propri familiari alle cure di un medico, o alla competenza di un avvocato, o alla consulenza contabile di un commercialista, è ben contento di sapere che l’esercizio di queste professioni sia regolamentato da precisi percorsi accademici, di specializzazione e di praticantato, e non può essere svolto in modo improvvisato a livello amatoriale, a rischio poi di affidarsi al primo autodidatta che passa. E’ semplicemente assurdo che lo stesso non valga quando si vanno a cercare informazioni sulle previsioni meteorologiche, ed è decisamente ora di correre ai ripari”.

Quali strumenti ha oggi il cittadino per riconoscere l’informazione meteo affidabile da quella improvvisata?
In assenza di certificazioni sancite dalla legge, gli strumenti in possesso del cittadino passano dal tener presente alcune semplici regole, a partire da quella che definirei aurea, secondo cui le previsioni meteo sono affidabili fino a 2-3 giorni nel futuro in caso di tempo instabile o perturbato, ci si può invece spingere a 6-7 giorni nei casi di alta pressione particolarmente massiccia e consolidata, ma non oltre. E questo non per limiti nella “bravura” di chi fa le previsioni o di chi sviluppa la modellistica numerica, ma per questioni intrinseche alle leggi della Fisica dell’atmosfera. Oltre a non prestare credito agli annunci su che tempo farà fra 10 o 15 giorni (figuriamoci sula stagione a venire), inoltre, non bisogna fidarsi di chi utilizza toni sensazionalistici, rivendica presunti scoop, propina titoli o termini ad effetto, battezza cicloni e anticicloni con nomi più o meno bizzarri, spaccia per affidabili previsioni esageratamente dettagliate (ora e luogo esatti) delle piogge e ancor peggio dei temporali, vende false certezze (l’atmosfera è un sistema fisico caotico, come detto esiste una incertezza non eliminabile anche nelle previsioni a breve scadenza, e va comunicata). Decisamente da evitare anche quelle previsioni automatiche tanto facili ed immediate da consultare ed interpretare (le famose icone dei siti meteo o delle App per gli smartphone) quanto a rischio di risultare fuorvianti (la vera previsione è quella che include il valore aggiunto dell’esperienza del previsore, non il mero output di un computer). Inversamente, è sempre opportuno privilegiare la completezza dei bollettini testuali (scritti o esposti a voce che siano), eventualmente accompagnati dalla grafica (ma senza mai limitarsi alla fuorviante sintesi di quest’ultima), espressi con linguaggio asciutto, terminologia seria e rigorosa, adeguata quantificazione dell’incertezza e della probabilità, e toni senza enfasi a tutti i costi, proporzionati di volta in volta all’effettiva intensità dei fenomeni: quando questi ultimi si annunciano severi, i toni saranno pesanti, talvolta anche gravi, ma senza mai perdere di vista il rigore della lessico scientifico e senza mai cedere alla tentazione di facili espressioni ad effetto. Anche qui, l’analogia con altre professioni specialistiche può essere istruttiva: chi di noi si fiderebbe di un medico che usa accompagnare le diagnosi, a maggior ragione in casi non banali, con termini sensazionalistici ed espressioni da clamore mediatico, inventando magari soprannomi folcloristici da assegnare alle varie patologie?”

In ambito di protezione civile le previsioni del tempo sono fondamentali soprattutto nelle fasi di allerta in cui si prendono le misure atte a evitare le conseguenze di fenomeni meteo importanti o estremi. Qual è in questo caso il rischio derivante da previsioni meteo o linguaggi fuorvianti?
Questo è davvero un aspetto delicato della questione e cruciale per il Paese, quando si parla di allertamento non ci si possono davvero permettere confusioni o ambiguità di sorta. E invece, nell’ambito della nota mancanza di regolamentazione, già di per sé deleteria, sulla credibilità da attribuire alle fonti di una previsione meteorologica, risulta particolarmente grave la regolare sovrapposizione fra le informazioni a fini di allertamento emesse dagli Enti istituzionali, di cui è prerogativa esclusiva tale compito, e quelle divulgate da soggetti privati che – svincolati da qualsiasi legame con la reale attivazione del territorio e quindi liberi da qualsiasi responsabilità civile e penale sia per i falsi che per i mancati allarmi – usano sbizzarrirsi nel divulgare messaggi esplicitamente riportanti espressioni quali “attenzione”, “avviso”, allerta”, “allarme” e via dicendo, tipicamente accompagnati anche da toni apocalittici e quindi gravemente fuorvianti (poche cose fanno ascolto come l’allarmismo o il terrorismo mediatico, nella realtà però esistono vari livelli di allertamento, un evento da avviso non è necessariamente la perturbazione del secolo, è fondamentale distinguere di volta in volta il grado degli scenari di rischio previsti), quando non riportanti informazioni prive di effettiva attendibilità e quindi ancor più pericolose. Questo crea un rumore mediatico gigantesco, nell’ambito del quale faticano ad essere chiaramente distinti e correttamente recepiti, di volta in volta, i messaggi di allertamento ufficiali, arrecando danni enormi in termini di correttezza dell’informazione che arriva tanto alle istituzioni sul territorio quanto, a maggior ragione, alla popolazione. Ne va della credibilità del messaggio (la storiella del “al lupo al lupo” è sempre attuale), ne va dell’efficienza in termini di tutela dei beni della collettività e della vita umana, ed è quindi una questione su cui è urgente una presa di coscienza in termini di senso di civiltà, di etica e di responsabilità, prima ancora che di conseguenze penali (alle quali sarà pure ora di iniziare a dare avvio, visti i diffusi abusi). A questo si aggiunga come gli eventi avversi – in un’epoca in cui va per la maggiore sparare a zero e per principio sulle istituzioni – vengano regolarmente strumentalizzati per dare adito a speculazioni, false accuse ed autentici atti di sciacallaggio nei confronti delle allerte ufficiali, sia da parte dei “biscazzieri del web” (come vennero efficacemente definiti dal Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Prefetto Gabrielli) che purtroppo – in casi più circoscritti ma istituzionalmente assai gravi – da parte di singoli esponenti del mondo della ricerca, evidentemente a caccia di visibilità mediatica o di propaganda per l’attività del proprio gruppo, come tristemente avvenuto dopo l’ultima alluvione di Genova, dimostrando peraltro di non conoscere né il funzionamento del sistema di protezione civile né il contenuto degli avvisi meteo emessi nei giorni in questione (a tale proposito, mi permetto di auspicare che gli Enti di ricerca, specie in situazioni drammatiche in cui ci sono cittadini che hanno perso la vita, adottino un maggiore controllo sulle interviste di loro dipendenti o dirigenti che, pur parlando a titolo personale, nel rilasciare dichiarazioni superficiali o errate in merito al lavoro altrui figurano comunque esplicitamente come esponenti dell’Ente di appartenenza). Questa consuetudine di sfruttare, in situazioni di emergenza, in modo più o meno “sciacallistico” e con il solo scopo di farsi pubblicità, un tema delicato e complesso come la protezione civile, finisce regolarmente per assestare ingiuste spallate mediatiche all’immagine e alla credibilità di un sistema che funziona quotidianamente, con personale qualificato attivo per 24 ore al giorno e 365 giorni l’anno, secondo precise codifiche, tempistiche e catene di responsabilità, nella complessa architettura del sistema Stato-Regioni, al servizio dei cittadini. La realtà, vale la pena sottolinearlo, è che in un territorio così disastrato dal punto di vista idrogeologico (siamo letteralmente “un Paese che cade a pezzi”, sono parole scritte nei verbali della Commissione Ambiente alla Camera e al Senato), in cui il rischio del disastro incombe a ogni pioggia intensa, sul sistema di allertamento ricade un peso spropositato di responsabilità civili, penali, mediatiche, morali (che andrebbero invece ricondotte a ben altri destinatari), e un carico altrettanto eccessivo di aspettative, rispetto alle reali potenzialità di una allerta, che ne fanno il capro espiatorio di ogni catastrofe e di ogni tragedia, invece di parlare dei veri problemi e delle vere responsabilità, quelle di un territorio ridotto a un colabrodo da decenni di scempi edilizi ed urbanistici, di lavori per la messa in sicurezza mai iniziati anche quando erano stati finanziati e di atti amministrativi a dir poco criminali che – in un contesto così vulnerabile – espongono la popolazione al rischio in modo indiscriminato (si pensi alla concessione dell’abitabilità nei seminterrati in zone a rischio alluvione)”.

Il prossimo settembre, Lei parteciperà a Senigallia al meeting AssoDima con un intervento a titolo “Meteobufale, meteogiullari e meteostrilloni… difendiamo la dignità della meteorologia dagli urlatori del web”. Cosa intende per meteobufale e perché hanno tanta presa sulla gente?
Le ‘meteobufale’ sono il prodotto di punta di chi utilizza la popolarità dell’informazione meteorologica come strumento per procacciarsi audience o catturare visibilità, puntando su notizie false, o prive di qualsiasi attendibilità scientifica, ma di sicuro appeal per gli utenti (tipo che tempo farà a Natale o a Pasqua con dieci o quindici giorni di anticipo) o di altrettanto certo impatto emotivo e quindi mediatico (tipo le notizie gonfiate a dismisura per essere tramutate nell’evento del millennio). Purtroppo bisogna rilevare una certa complicità di una parte consistente del mondo dell’informazione, il quale – a sua volta a caccia della “notizia” da sparare a caratteri cubitali a lettori o telespettatori – si presta sovente a rilanciare queste autentiche bufale meteorologiche, portandole così all’attenzione di milioni di persone e conferendo loro una patente di credibilità e autorevolezza (“l’ha detto la televisione”), in una perversa combinazione di intenti fra la malafede della fonte che confeziona la notizia gonfiata/finta/distorta e la smania di sensazionalismo del giornalista a caccia di titoloni, scoop o frasi ad effetto. Questo rappresenta un danno incalcolabile per la comunicazione di questa scienza e per le enormi potenzialità che deriverebbero da una divulgazione seria e professionale delle informazioni meteorologiche, sia in termini di corretta fruibilità quotidiana per i cittadini, che di salvaguardia delle vite umane. Per fortuna, nel panorama dei media e del giornalismo esistono anche le eccezioni, e devo dire che ho avuto personalmente la buona sorte di incontrarne parecchie. Noto anzi sempre più spesso, con un certo piacere, che l’esagerazione mediatica sui fenomeni atmosferici è giunta a livelli talmente estremi, da far sì che il raccontarli in modo oggettivo e semplicemente attinente ai fatti desti regolarmente stupore, attenzione ed interesse, in una parola – paradossalmente – faccia audience. E questo, fra l’altro, vuol dire che tantissima gente sarebbe molto più pronta e disposta di quanto non si pensi ad accogliere una informazione seria, asciutta ed equilibrata”.

“Meteogiullari” e “meteostrilloni”: definizioni forti…
“Tanto forti quanto, purtroppo, appena sufficienti a descrivere il desolante stato della divulgazione meteorologica nel nostro Paese, dove le isole di professionalità, sia del mondo istituzionale che della parte più seria del mondo privato, faticano ad essere individuate, nell’oceano della meteorologia da tendone circense di cui sopra. Gli “strilloni”, per i quali qualsiasi evento viene gonfiato a diventare notizia da edizione straordinaria, spesso coincidono con i “giullari”, sempre più fantasiosi nel corredare gli eventi meteorologici di nomignoli, termini folcloristici, espressioni roboanti e titoli ad effetto, e sempre pronti a giocare sul presentare come previsioni attendibili delle ipotesi in realtà non suffragate da affidabilità scientifica (quali le tendenze a lungo termine). Le due caratteristiche insieme, inoltre, concorrono a creare notizie a dir poco distorte (tipo raccontare alla gente che un evento di El Niño possa essere utilizzato operativamente per prevedere come sarà la stagione a venire nel Mediterraneo) o per cavalcare le più strampalate e infondate teorie complottiste, pur di guadagnare un articolo di sicuro fascino per molti lettori (esempio principe, la celeberrima bufala delle “scie chimiche” cui è arrivato a prestare credito perfino qualche Deputato della Repubblica, nelle proprie interrogazioni parlamentari). Ma potremmo aggiungere definizioni anche più cattive (a partire dal “meteopattume” che popola diffusamente soprattutto il web e i social), ricorrendo giocoforza anche ad alcune poco signorili (le lascio alla vostra immaginazione), senza mai riuscire a descrivere completamente il fenomeno”.

I cambiamenti climatici però hanno estremizzato i fenomeni meteo, molti dei quali non più sono compatibili o riconoscibili con la terminologia consueta…
“No, non abbiamo a che fare con fenomeni “nuovi” per i quali serva inventarsi altri nomi. E’ più corretto dire, invece, che i cambiamenti climatici stanno rendendo più frequenti i fenomeni meteo estremi, che nel nostro clima ci sono sempre stati, ma si manifestavano come eventi assai più saltuari, per non dire rari, specie nelle manifestazioni di maggiore intensità (e questa aumentata frequenza ha ovviamente effetti devastanti negli impatti sul territorio, sull’ecosistema e sulle attività umane). I fenomeni estremi che registriamo nel nostro Paese derivano da nubifragi, tornado, ondate di calore, cicloni, mareggiate (ed associati effetti al suolo – complici la diffusa vulnerabilità del nostro territorio – come frane, alluvioni, erosioni costiere, incendi, siccità) e non sono affatto eventi o situazioni nuove o sconosciute: la terminologia meteorologica ufficiale esistente, pertanto, resta più che esaustiva per descrivere gli eventi. Quel che non è più adeguato, invece (ammesso che lo sia mai stato), e che andrebbe urgentemente modificato in conseguenza dei cambiamenti climatici e della aumentata frequenza degli eventi estremi, sono le scelte energetiche, i criteri edilizi, le pianificazioni urbanistiche, le pratiche ambientali, le abitudini di utilizzo e gestione del territorio, per mettere in atto strategie sia di adattamento che di mitigazione, rispetto all’epocale emergenza del global warming che rischia seriamente di tramutarsi in catastrofe, e le cui cause sono peraltro antropiche. Nel nostro Paese, quanto a contrasto degli eventi avversi ed estremi, dobbiamo recuperare decenni di cementificazione selvaggia, urbanizzazione scriteriata e gestione dissennata del territorio, portate avanti a suon di condoni senza alcuna attenzione alle problematiche del rischio idrogeologico e idraulico (che ormai risultano elevati sulla porzione del 10% del territorio nazionale, distribuita nell’82% dei comuni italiani a coinvolgere circa 6 milioni di cittadini); le nostre città e le nostre infrastrutture sono state costruite come se fenomeni meteorologi intensi non facessero già parte del nostro clima, e continuare a considerare questi ultimi qualcosa di “nuovo” o di “mai visto”, introducendo neologismi peraltro sgraziati e dal vago sapore guerrafondaio, come le famigerate “bombe d’acqua”, non fa che fornire alibi e giustificazioni a chi, pur di lucrare, non li ha tenuti in considerazione in sede di progettazione e di pianificazione (pensiamo a tutti gli insediamenti in piane alluvionali o in aree di espansione naturale dei corsi d’acqua, alla tombatura di questi ultimi nel pieno centro di grandi città, alla scarsa manutenzione degli argini e dei versanti). In un quadro così disastrato e dissestato, gli scenari dei cambiamenti climatici, per cui un luogo che prima poteva essere colpito da alluvioni una volta ogni dieci o venti anni ora rischia di essere invaso dalle acque un anno sì e l’altro pure, sono casomai una aggravante, non una scusante, rispetto a come abbiamo trattato e continuiamo a trattare il nostro territorio”.

In sintesi da una parte bombe d’acqua, caldo sahariano, grandinate epocali, freddo glaciale e meteoflagelli estemporeanei, dall’altra l’esigenza di ridare alla comunicazione della meteorologia, e quindi alla meteorologia, la dignità di una scienza importante, scevra da approssimazioni o da effetti richiamo e di comunicare al cittadino con linguaggio rigoroso (ma comprensibile e accessibile) il clima che cambia. Come se ne esce?
Se ne esce solo agendo contemporaneamente a vari livelli, da un lato sul piano normativo, introducendo adeguati criteri di regolamentazione e certificazione di questa professione (cui, però, deve accompagnarsi una ferrea attività di individuazione e perseguimento degli abusi), dall’altro lato sul piano educativo e formativo, lavorando a tappeto nel tessuto sociale (a partire dalle scuole, fin da quelle primarie e secondarie inferiori) per elevare in misura macroscopica il livello culturale medio della popolazione in materia meteorologica. Questo secondo aspetto è fondamentale, perché permetterebbe di filtrare automaticamente la stragrande maggioranza del pattume meteorologico, fino a scoraggiarne definitivamente la produzione e la diffusione: se qualcuno racconta su internet che Dante ha scritto i Promessi Sposi, o sostiene che “un albero” si scrive con l’apostrofo, viene preso (almeno mi auguro!) per persona non meritevole di alcuna credibilità letteraria, senza bisogno che intervenga alcun ente ufficiale o professionista certificato a farlo notare… mentre se uno spara analoghe bestialità in ambito meteorologico (ma forse potremmo generalizzare questo discorso all’intero campo scientifico), rischia di essere preso sul serio da una larga fetta degli utenti, e addirittura rilanciato dai più importanti quotidiani nazionali e dalle maggiori agenzie di stampa del Paese. E questa è una situazione che non credo una Nazione civile si possa più permettere”.

Dott. Thiery, c’è qualcos’altro che vuole aggiungere?
“Sì, un pensiero. Per Stefano Gallino, storico meteorologo dell’Arpa Liguria e della Federazione italiana di Vela, per la quale ha ripetutamente seguito la nostra Nazionale, come previsore ufficiale, sia alla Coppa del Mondo che alle Olimpiadi. Un professionista brillante e generoso, molto stimato anche a livello internazionale, a testimonianza di quanto la meteorologia italiana – quella vera – possa mettere in campo risorse davvero di eccellenza. Ed è uno dei colleghi con cui condividevamo, da anni, questa piccola-grande battaglia per una buona e corretta divulgazione della meteorologia. Ora non c’è più, ma io voglio pensarlo concentrato sulle mappe meteorologiche a districare isobare e correnti, e ad inseguire il moto delle onde che amava tanto, e che per lui – a forza di essere vento, come cantava De Andrè – non avevano segreti”.

Patrizia Calzolari